WILDERNESS, PARCHI E COMUNITÀ LOCALI

La voce di chi ha vissuto l’esperienza sulla pelle della propria famiglia, confliggendo i problemi materiali e di vita con i sentimenti interiori di chi nella natura è cresciuto e da essa ha imparato a vivere, ad amarla ed a rispettarla 

La critica alla gestione maldestra e opportunista del sistema dei Parchi, uno degli ambiti di intervento dell’AIW, è giusta e doverosa. In particolare va sottolineata la critica a quella visione museale della natura propria dei Parchi, basata sulla necessità di avvantaggiare le esigenze di “fruizione” del turista la quale, spesso, invece che alla conservazione porta al danno ambientale (perché magari per arrivare al “museo” necessitano strade asfaltate; e poi capita che se nel museo non c’è nessun guardiano allora qualcuno graffia i monumenti…). Un aspetto importante della conservazione della natura è legato proprio all’accessibilità: se si rende accessibile la montagna con strade, impianti di risalita e rifugi, inevitabilmente la sua integrità sarà minacciata. Penso che sul turismo noi ambientalisti dobbiamo evitare di passare per degli integralisti, sottolineando come il turismo possa anche essere sostenibile se si approntano strumenti di controllo sull’impatto dei visitatori (oltre al discorso della limitazione dell’accessibilità, guardiaparco ad esempio, divieti e ruolo delle guide ufficiali dei parchi). Il turismo non può perciò che essere selettivo e controllato ma c’è di più: non può essere affidato alla gestione di speculatori e affaristi. Questa è una questione decisiva. Il Pollino, ad esempio, ha rischiato grosso proprio quando, negli anni Settanta, una fantomatica “Società Monte Pollino” avrebbe voluto costruire, nel regno del pino loricato, alberghi d’alta quota con strade e impianti di risalita! Ecco, se concepito così, il turismo non può che essere distruttivo di quella stessa risorsa che vorrebbe valorizzare. Il paradosso è che il turismo di massa ha invaso anche molti parchi nazionali, e condiziona anche quelle attività di fruizione ritenute “ecocompatibili”. E’ un turismo che discende da un’ideologia di “sviluppo urbanistico” e che comporta un uso ricreativo di massa della montagna. Invece il modello a cui io penso è quello basato sul recupero (in chiave moderna) dell’identità rurale dei borghi di montagna, dove concentrare le attività ricettive: borghi alberghi, quindi bed and breakfast gestiti dalle famiglie, così come i ristoranti di prodotti tipici, gli agriturismo gestiti da contadini. E’ questo un turismo diverso che fa perno sulla cultura, le conoscenze e i valori d’ospitalità delle popolazioni montane. Quanto al turismo sportivo, bisogna selezionare e gestire quelle pratiche ritenute non invasive: penso alla mountain bike su strade forestali, all’ alpinismo, lo scialpinismo, lo sci di fondo su piste naturali, l’escursionismo guidato. Sono ovviamente discorsi le cui sfaccettature cambiano da montagna a montagna. Il criterio di gestione da adottare penso sia quello di guardare sempre alle esigenze della natura: non è la montagna che deve adeguarsi alle stravaganze e alle mode del turismo di massa, ma, viceversa, sono le pratiche turistiche e sportive che devono armonizzarsi con le esigenze di salvaguardia dell’integrità naturale. Detto questo, penso che la gente di montagna dovrebbe ritornare anche a vivere di pastorizia, artigianato e agricoltura, ovviamente praticati in maniera più razionale e produttiva rispetto al passato; e le istituzioni dovrebbero incentivare e non soffocare queste attività tradizionali! Allevamento e agrigoltura tradizionali potrebbero poi svilupparsi anche in funzione di un turismo che fa perno sui prodotti tipici, considerando l’estrema competitività dell’agricoltura e dell’allevamento industriali che creano difficoltà nell’allocazione dei prodotti locali nei mercati più ampi.
Sta di fatto che le collettività locali montane spesso hanno ricevuto più danni che benefici dalle politiche dei parchi. Porto ancora la testimonianza della mia terra. Va detto, come premessa, che la “mia” gente, (soprattutto i giovani) continua ad amare la propria terra ed a volerla salvaguardare. Sul Pollino i finanziamenti sono stati utilizzati o per opere inutili o per essere intascati dalle solite cricche burocratiche inconcludenti. Concordo con Zunino sul fatto che il ruolo prioritario dei Parchi dovrebbe essere innanzitutto la tutela della natura e non lo sviluppo economico, perché a quello ci dovrebbero pensare altri soggetti privati e pubblici: sono le regioni, i comuni e soprattutto la libera iniziativa dei cittadini a creare prospettive di sviluppo locale, mentre l’Ente Parco dovrebbe solo gestirle e indirizzarle ai fini della conservazione della natura. Semmai gli enti gestori dei parchi dovrebbero creare occupazione e reddito negli ambiti di tutela della natura (penso ai guardiaparco, alle guide naturalistiche, ai ricercatori, agli operai forestali…); oggi invece essi sembrano porsi come agenzie di sviluppo o management, in realtà sperperando soldi pubblici per progetti inconcludenti e per le solite cattedrali nel deserto! E’ vero che il Parco crea anche sviluppo, ma solo indirettamente ed esclusivamente nell’interazione che si può creare tra conservazione della natura e partecipazione della comunità locale alla promozione e tutela del proprio territorio.
La conseguenza più dannosa della cattiva gestione dei parchi nazionali è stata, almeno per il Pollino, anche la dispersione di quelle energie giovanili che erano sensibili ai valori di tutela e di sviluppo della propria terra d’origine e che avrebbero potuto cambiare un po’ il solito andazzo delle cose. Ma penso che questo sia un problema complesso, presente in molti altri parchi e non solo nel Pollino.
Insisto sulla comunità locale in quanto essa può giocare un ruolo fondamentale nella salvaguardia della natura, perché rappresenta un patrimonio di conoscenza del territorio e perché no, anche di “amore” per paesaggi e atmosfere legate al “luogo”. E quando penso alla comunità locale mi riferisco prima di tutto alla gente semplice (la “povera gente” di cui parlava Mario Rigoni Stern in uno dei suoi scritti) visto che la borghesia parassitaria locale è quella che di solito più si compromette con l’affarismo e il potere. Confesso anche che, se ho manifestato interesse verso l’idea Wilderness sin dal primo momento, è perché non ho ritrovato in essa la “puzza sotto il naso” di certi ambientalisti nei confronti degli abitanti della montagna. Penso, di conseguenza, che il dialogo con chi vive la montagna possa diventare un fattore decisivo per educare le comunità locali ad essere i custodi gelosi dell’identità e della bellezza della propria terra. Ma per fare ciò bisogna prima di tutto rispettare le persone che affrontano tutte le difficoltà della vita nei paesi di montagna (e sono davvero tante!). Nonostante non abbia tante simpatie per la caccia, giudico quindi positivo anche il dialogo con i cacciatori, per coinvolgerli in progetti di tutela degli habitat e per spingerli a praticare una caccia “conservazionista”, selettiva e non distruttiva per la fauna selvatica (a patto però che non vi sia esitazione nel denunciare i danni della caccia a specie rare o protette e in genere i suoi eccessi). Sicuramente meglio dialogare che condannare, perché qualche testa calda poi fa i danni che tutti noi conosciamo.
In ultima analisi, penso che la filosofia wilderness non faccia che mettere in discussione la contrapposta “filosofia utilitarista della natura” (se non “mercantilista”) insita proprio nella politica dei parchi nazionali e di certe tendenze ambientaliste. E’ perciò da condividere in toto la critica al capitalismo, al burocratismo e all’accondiscendenza verso il mercato di associazioni ambientaliste istituzionali e verdi (basti pensare al business delle “energie rinnovabili”) già fatta a suo tempo in alcuni articoli da Mario Spinetti. La visione del mondo non utilitarista è invece quella dei popoli tribali per i quali “non è la terra che appartiene all’uomo ma l’uomo che appartiene alla terra”, una visione che non casca dal cielo perché (anche se può sembrare un discorso determinista) è diretta conseguenza di un sistema di vita a contatto con la natura dove non esiste il concetto di potere e di proprietà privata (e qui tornano i conti, perché la visione che ha influenzato il movimento wilderness trae anche origine dall’esperienza di trapper e viaggiatori entrati in contatto con la cultura dei popoli pellerossa). E’ questa, a mio avviso, la visione del mondo “ecocentrica” che è alla base della filosofia wilderness ed è in tale ambito che trova posto anche l’uomo, come essere che partecipa in armonia con il “cerchio della vita”.
In merito ai Parchi, essendo io un abitante di uno dei paesi che ne fanno parte (S. Severino Lucano, nel Pollino), mi si permetta uno spunto di riflessione. Le fotografie di questo articolo illustrano uno dei pini loricati più belli del Pollino. Aveva forse 600 anni e dovette arrivare il 1994, un anno dopo quello dell’istituzione del Parco Nazionale (1993), per decretare la sua fine. Il pino fu bruciato da ignoti. Sono passati 18 anni e i resti ancora resistono alle intemperie. Non è un paradosso se un albero del genere, sopravvissuto 600 anni o più, sia stato bruciato proprio in coincidenza dell’istituzione del Parco? All’epoca si accusarono pastori e cacciatori. Si accusò l’imbecillità umana. Vero è che chiunque sia stato a fare quel gesto è un criminale. Forse sono stati (materialmente) un pastore o un cacciatore, certo. Evidentemente non si doveva assumere subito quel pino come simbolo di un parco. E oggi il logo del Parco porta ancora la triste silhouette di quel pino. I simboli sono pericolosi, soprattutto se si rifanno a cose e persone materialmente individuabili. Forse certi ambientalisti e politici, invece della ricerca del dialogo con la comunità locale diffusero un clima di allarmismo e di paura a causa dei vincoli che si volevano porre alle attività tradizionali (pascolo soprattutto, taglio di legna, caccia). Alla fine vi fu un allarmismo anche ingiustificato, perché poi in fin dei conti i vincoli non erano così eccessivi. Ma è il clima che si diffuse che fu deleterio. Mio padre mi raccontava che al momento dell’istituzione del parco vi fu il caso di un pastore che addirittura si suicidò, perché pensava che non avrebbe più potuto far pascolare il proprio bestiame! Ora, è vero che chi bruciò il pino è un criminale (e come certi criminali, anche incosciente), ma alle teste calde bisogna impedire di agire. Non bisogna creare le condizioni affinché poi si facciano i danni che tutti noi conosciamo. Dialogo soprattutto, gradualità nelle politiche vincolistiche dirette a limitare i diritti ancestrali, coinvolgimento dei locali nella gestione e conservazione del territorio. Cose che forse mancarono quando fu istituito il Parco Nazionale del Pollino (dico forse perché sono troppo giovane per ricordare nei dettagli cosa successe all’epoca) e a cui si aggiunse la profonda delusione, da parte delle popolazioni locali, nei confronti di un Parco che progressivamente diventava sempre di più un organo affaristico e burocratico, senza nessuna attenzione per le esigenze delle comunità, che in quel parco, dopo la sua avvenuta istituzione, avevano anche sperato per un possibile riscatto socioeconomico e culturale.
Quando passo accanto al “cadavere” del pino bruciato nel 1994, sento una ferita al cuore. Io, che all’epoca avevo 14 anni, non lo avevo ancora visto da vivo. Riuscii a vederlo solo all’età di 19 anni durante la mia prima escursione alla Grande Porta… ma da morto. Mi levarono infatti per sempre quel diritto, di cui noi ambientalisti parliamo tanto e che appartiene alle generazioni future, di godere degli spettacoli della natura selvaggia.
E’ quindi ora che i montanari si sappiano riappropriare della loro terra, tutelandola e allo stesso tempo lottando per lavorarci e per continuare a viverci. In una parola è bene occuparsi della tipologia di sviluppo necessaria alle popolazioni montane, che tuteli contemporaneamente la natura selvaggia e l’economia delle aree montane. Bisogna lottare per fare in modo che le comunità locali sappiamo crescere sapendo “valorizzare” (nel senso genuino del termine) le proprie risorse tutelando contemporaneamente l’integrità dei propri territori… e quindi la wilderness: è questo il senso dell’autonomia gestionale, che è anche l’obiettivo politico che io perseguo…

di Saverio De Marco