RIPRISTINARE WILDERNESS, AMBIENTI E BIODIVERSITÀ

WORLD WILDERNESS WATCH NEWS
Notizie dal mondo sulla preservazione e gestione della risorsa Wilderness

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AVANTI TUTTA NEGLI USA!

Il ripristino della biodiversità significa reinserire le specie estinte. Nessun paese al mondo lo sta facendo quanto gli Stati Uniti d’America, dopo anni ed anni di depauperamento e sterminio perpetrato con ferrea logica fino a non molti decenni fa, soprattutto nei riguardi delle cosiddette “specie nocive”, cioè i predatori, dal gigantesco Grizzly al piccolo Furetto dai piedi neri. Nonostante il grande impegno portato avanti per la conservazione degli antichi spazi vitali di questi animali, con Parchi, Riserve, Aree Wilderness ed una multiforme tipologia di altre aree protette, gli Stati Uniti si erano quasi svuotati di tante specie predatrici. Da alcuni anni la politica è cambiata, anche in campo ambientalista, non solamente nel tentativo di salvare ciò che di queste specie era rimasto (alcune salvate proprio sull’orlo dell’estinzione, come il Condor della California o il Furetto dai piedi neri, poi anche reintrodotti in diverse altre località, il primo nella zona del Grand Canyon del Colorado, il secondo in un’Area Wilderness del South Dakota), ma nel cercare di reintrodurle dai luoghi dalle quali erano state sterminate. Dopo le prime eclatanti iniziative quali, la reimmisione del Lupo grigio nello Yellowstone e del Lupo rosso in alcune aree del Sud-Est, nonostante alcune opposizioni, la politica di reintrodurre specie estinte è proseguita con un crescendo sempre maggiore. Solo nell’ultimo anno si è operato o si sta per operare: la reintroduzione della Martora di Pennati nell’Olympic National Park (nello Stato di Washington), dal quale si era estinta circa 80 anni fa (già reintrodotta da pochi decenni nel Vermont); la reintroduzione del Giaguaro nel sud del New Mexico e dell’Arizona, dove almeno un’osservazione è stata fatta nel 1996, grazie ad individui provenienti dal Messico dove sono state acquistate e costituite in Riserva due proprietà di 4.000 e 14.000 ettari del suo habitat principale; la reintroduzione del Lupo messicano in alcune Aree Wilderness tra Arizona e New Mexico, dove la consistenza ha ormai raggiunto i circa 100 individui; il ritorno spontaneo del Grizzly in altre Aree Wilderness dell’Idaho (dalle quali si era estinto nel 1946), dove, purtroppo, recentemente è stato erroneamente ucciso un individuo migratovi dal Canada (con un tragitto di 225 Km!), segno di un possibile ritorno naturale sia da quel paese sia dal non lontano Yellowstone Park.

ANCORA UN ESEMPIO DALLA CALIFORNIA

La reintroduzione di specie estinte e la protezione di quelle a rischio di estinzione dai luoghi originari, in America è ormai da tempo una prassi consolidata, con un crescendo di iniziative sempre più valide.
Una di queste è stata messa in atto per ripristinare la biodiversità delle Isole del Canale, nel sud-ovest della California. 20 isole dell’arcipelago noto come Chanel Islands, inserite nell’omonimo Parco Nazionale. Qui vivono quasi 1.000 specie di piante ed animali, molte delle quali introvabili altrove; una ricchezza che ha permesso loro di essere spesso definite come “le Galapagos del Nord America”. Il simbolo di questa biodiversità è una specie di volpe grigia di piccola taglia giunta in queste isole circa 16.000 anni fa (è più piccola di un gatto domestico), considerata uno dei più rari carnivori del mondo. Di questa volpe esistono sei sottospecie, distribuite una per ogni isola maggiore dell’arcipelago, per un totale di circa 3.500 individui.
La maggiore di queste isole fu acquistata dalla benemerita associazione conservazionista Nature Conservancy, che, assieme al Parco Nazionale, la gestisce come Santa Cruz Island Preserve. A partire dal 1850 vi furono introdotti dei maiali, che si sono poi rinselvatichiti fino ad occupare tutta l’isola con migliaia di capi, causando dei danni enormi ed anche irreversibili alla sua pregiata flora, ma anche all’endemica specie di volpe.
Sull’isola di Santa Cruz, la più vasta dell’arcipelago, la popolazione di questa volpe si è ridotta addirittura del 90% negli ultimi anni. La presenza dei maiali inselvatichiti, oltre a danneggiare la piccola volpe, stava arrecando danni ingenti alla vegetazione originaria, creando situazioni ambientali favorevoli a specie esotiche e danneggiando anche siti archeologici. Così la Nature Conservancy ed il National Park Service decisero un’azione congiunta per sterminarli. Dopo una serie di polemiche con i soliti animalisti e, dopo aver esaminato varie possibilità alternative, furono costruiti dei recinti all’interno dell’isola e dei cacciatori professionisti furono autorizzati ad uccidere sistematicamente i maiali, sia con battute sul terreno sia con l’ausilio di elicotteri. Così, circa due anni fa, si raggiunsero i 5.036 maiali abbattuti. Fu una storia emotivamente dolorosa ma necessaria, dichiararono le autorità, perché bisognava dare alle specie originarie le migliori possibilità per poter sopravvivere.
Nonostante ciò, un altro problema si presentò a danno della piccola volpe. L’Aquila reale che mai aveva abitato le isole, attratta dalla presenza dei cinghiali vi si insediò, e le piccole volpi divennero per lei delle facili prede. Per risolvere questo secondo problema fu iniziato un programma di catture e spostamento di queste Aquile reali. Attualmente sono già state catturate e trasferite sulla terra ferma 44 di esse.
Intanto si rendeva necessario reintrodurvi l’Aquila di mare a testa bianca, che si era quasi estinta negli anni ‘50 del secolo scorso a causa degli effetti del DDT. Nel 2002 erano già state reintrodotte 30 di queste aquile, e nel 2006 c’è stato il primo caso di nidificazione dopo 50 anni.
Con l’eliminazione dei maiali inselvatichiti e con le Aquile a testa bianca che pattugliano i cieli, sull’Isola di Santa Cruz la popolazione di volpi è giunta ai 350/400 individui contro i 100 di soli otto anni fa.
“Questa di Santa Cruz è considerata una delle operazioni di ripristino della biodiversità e di preservazione di specie a rischio meglio riuscite della storia”, ha dichiarato il direttore della Nature Conservancy Preserve.

UN GRANDIOSO PROGETTO IN FLORIDA!

Il governatore della Florida, John Adornato, nel giugno scorso ha elettrizzato il mondo degli ambientalisti americani quando ha annunciato la sua intenzione di fare acquistare dallo Stato 71.200 ettari di piantagioni di canna da zucchero e di agrumi per un totale di 1,75 miliardi di dollari, a sud del lago Okeechobee, dove un tempo si estendeva un’immensa area acquitrinosa che collegava il lago al famoso Everglades National Park, nell’estrema punta della Florida.
Negli ultimi cento anni, circa la metà di questa immensa area acquitrinosa, nota come “il fiume d’erba” che alimentava le paludi dell’Everglades, è stata bonificata e convertita in fattorie e zone urbanizzate. Il progetto di ripristino della situazione originaria era già stato annunciato nel 2000, da realizzarsi mediante una collaborazione tra lo Stato della Florida ed il governo federale; un progetto considerato la più grande opera di ripristino ambientale mai tentata al mondo. Con l’aggiunta della parte che acquisterà lo Stato, si potranno intraprendere opere di bonifica delle acque inquinate dai pesticidi e, con l’apporto delle acque piovane, si potrà iniziare a ricreare il paesaggio naturale originario. Per questo progetto la Florida avrà bisogno dell’aiuto fondamentale del governo federale, anche se l’amministrazione Bush non è stata solerte nel sostenere questo impegno per poter dare il via al progetto. “Ripristinare le Everglades non è solamente vitale per il nostro ambiente”, ha dichiarato il Governatore, “ma anche per la nostra economia e per la qualità della vita. Noi dobbiamo lasciare un’eredità ai nostri figli ed ai nostri nipoti, salvando uno dei più vasti luoghi speciali del pianeta”.

RICONVERSIONI AMBIENTALI: INIZIATIVE IN SUDAFRICA

Quante volte abbiamo sognato di vedere sparire le distese di foreste artificiali di aghifoglie delle specie più svariate, piantate a iosa negli anni ’50 e ’60, ma anche prima ed anche dopo, in varie parti d’Italia, magari alterando aree di pascolo bellissime o facendo scomparire radure di cui oggi si sente tanto il bisogno in molti luoghi iper-forestati a causa dell’abbandono dell’agricoltura! Questi sarebbero i veri ripristini ambientali di cui il nostro Paese ha bisogno; pensiamo al versante sud del Parco Nazionale d’Abruzzo, o a quello del Monte Caira, o a molti terreni delle foreste demaniali sarde e siciliane, ad intere montagne umbre e fin giù alla Calabria; luoghi ambientalmente stravolti dai loro stati originari con la motivazione di rimboschire aree ritenute “perse”, ma che oggi rappresentano solo distese di foreste artificiali, esteticamente brutte ed anche scarse di flora e di fauna proprio per la loro estraneità all’ambiente originario. La stessa cosa è successa in altre parti del mondo, specie in Sudafrica, dove di queste “piantagioni” se ne vedono per chilometri e chilometri quadrati un poco ovunque. Ebbene, oggi è propri da lì che ci viene un esempio che anche noi dovremmo imitare: totale disboscamento di queste distese di specie forestali esotiche e ripristino dell’habitat originario, seppure, magari, meno arboreo e più cespugliato, come è nel caso del bush sudafricano, appunto, ma assai più produttivo per la selvaggina originaria ed esteticamente “africana”. Due esempi importanti ci vengono dallo Stato del KwaZulu.
Nella Mbona Mountain Estate (una Riserva Naturale privata), per ricreare l’habitat originario, a partire dal 1996 ben 620 dei suoi 700 ettari delle piantagioni di aghifoglie, eucalipti, e diverse altre specie estranee sono stati deforestati. Esattamente l’opposto di quello che si fece alla fine degli anni ’60 quando tutta la proprietà venne rimboschita con queste specie, per scopi produttivi ed estetici, convinti di fare una cosa saggia e magari economicamente valida. Così facendo, alterando un ecosistema di prateria tra i più minacciati del Sudafrica, luogo di vita per diverse specie rare di fauna e flora. Utilizzando erbicidi ed incendi programmati, e con l’aiuto di organizzazioni ambientaliste ed anche delle autorità locali addette all’ambiente, quella foresta artificiale è stata sradicata, anche con grandi difficoltà nei casi in cui i rimboschimenti si erano fortemente trasformati in consistenti nuclei di foresta vera e propria. Oggi nei nuovi pascoli ricreati sono tornati ad aggirarsi uccelli e mammiferi, come il Rondone azzurro (tra le specie più minacciate del Sudafrica), l’Ibis calvo e la piccola antilope Oribi. Operazioni come queste sono i veri ripristini ambientali di cui anche l’Italia avrebbe bisogno, non le “riconversioni o ripristini ambientali” mascherati e fittizi che in Italia hanno solo permesso ad “esperti” di arricchirsi e a tanti progetti di urbanizzazione di giustificare o “mitigare” interventi ai danni dell’ambiente.
Il Great St. Lucia Wetland Park è uno dei maggiori Parchi sudafricani di recente costituzione (anno 2000), nonché il primo sito sudafricano inserito nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità, basato su alcune precedenti aree protette (tra le quali un’Area Wilderness) poi unite in un unico complesso e su piantagioni a scopo commerciale ed ex terreni militari. L’idea di unire questo patchwork di proprietà in un unico complesso che racchiudesse, tra l’altro, tratti di savana arborata, tre sistemi lagunari divisi dal mare da un complesso di dune vecchio di 25.000 anni, l’ultima foresta paludosa rimasta in Sudafrica, un tratto di Oceano Indiano con profondi canyon marini dove sopravvive ancora il Celacanto (pesce considerato un vero e proprio fossile vivente), spiagge integre siti di riproduzione di due specie di tartarughe marine, è stata basata sulla possibilità di riunire in un unico corpo tutti questi ambienti, recuperando all’ambiente originario strade sterrate, campi militari e loro strutture, recinzioni e terreni un tempo sottratti alla vegetazione originaria per impiantarvi pinete artificiali a rapido accrescimento.
Il Parco è oggi vasto 230.000 ettari, ed è già stato ripopolato con rinoceronti bianchi ed elefanti (Nelson Mandela ebbe a dire che il loro ritorno era «quasi una spirituale forma di restituzione, un tentativo di ricreare il tutt’uno della natura dove poter ritornare a vivere in armonia con la magnificenza del suo creatore, cosicché anche i discendenti dei nostri anziani, le generazioni del futuro, possano sperimentare questa grandezza»), a completare la vastissima gamma di specie che già comprendeva, tra cui ippopotami, coccodrilli e finanche diverse specie di balene ad altri mammiferi marini che lì giungono fino alla costa. Tra l’altro il Parco comprende anche una delle prime Aree Wilderness designate in Sudafrica per merito di Ian Player.
Oggi sono in avanzata fase di rinaturalizzazione 15.000 ettari dei settori un tempo rimboschiti con le pinete ed altra vegetazione infestante, le quali stanno poco a poco tornando a quella originaria prima soffocata dalla densità dei pini, ma anche allagati dai corsi d’acqua che erano stati prosciugati, e ripristinate antiche praterie e savane.
Tutto ciò ha dato la possibilità di creare 4.500 posti di lavoro all’anno negli ultimi cinque anni; ed ancora si proseguirà in futuro. Ciò dando un aiuto economico non da poco alle comunità indigene che vivono attorno al Parco e che comprendono circa 620.000 abitanti in una delle regioni più povere del Sudafrica. Nonostante ciò, gravi problemi esistono ancora a causa della pressione demografica sulle terre che potrebbero essere coltivate a canna da zucchero, sulle foreste sfruttate illegalmente e sui corsi d’acqua deviati per esigenze civili; e anche il turismo, pur considerato una risorsa per il futuro, rischia di arrecare dei danni a causa della illegale costruzione di campi e villaggi per la sua accoglienza. Nonostante questo, il Parco è considerato un modello di come si possa abbinare un processo di conservazione con un equilibrato contributo allo sviluppo umano, anche se, «pur essendo cruciale lo sviluppo, l’equilibrio non deve impedire che il primario scopo del Parco resti la conservazione dei suoi unici valori universali», ha dichiarato un dirigente del Parco.