Il numero 2/2011 di Wilderness/Documenti è stato dedicato ad un dibattito su Aldo Leopold che lo scorso anno ha coinvolto il filosofo Paolo Scroccaro, dell’Associazione Eco-Filosofica di Treviso (nonché detentore di un Certificato Internazionale di Ecologia rilasciato dalle Università di Parigi, Bruxelles e Padova) e Massimo Zaratin, Delegato regionale AIW per il Veneto, scaturito dall’intervento di quest’ultimo nel programma televisivo di una TV locale, ed i cui testi sono poi stati diffusi sul web attraverso vari siti, dove in molti sono intervenuti pro o contro le due tesi. Ora esse sono qui riprese, facendole seguire anche da un intervento di Franco Zunino quale sua risposta alla tesi del filosofo Paolo Scroccaro che, come già tanti altri ambientalisti italiani tendenzialmente anticaccia, ha interpretato a suo modo il pensiero di Aldo Leopold, addirittura alterando alcuni fatti storici e quello che fu il suo vero pensiero in merito alla caccia (che Aldo Leopold ha praticato tutta la vita con vera convinzione, considerandosi forse più un cacciatore che non un ecologista come invece è poi stato fatto passare per la sua intuizione sull’Etica della terra che gli ha fatto acquistare una fama mondiale, tanto da essere ancora oggi considerato il maggior ambientalista universalmente e storicamente noto). Aldo Leopold è anche l’artefice della prima Area Wilderness istituita al mondo e co-fondatore dell’americana Wilderness Society che ha poi ispirato Franco Zunino nel diffondere la filosofia wilderness in Italia e, soprattutto, il suo concetto di conservazione. Il fatto che Aldo Leopold fosse un cacciatore, in Italia è sempre stata una cosa che da fastidio agli ambientalisti, i quali, il più delle volte, hanno parlato di Leopold dimenticando questo suo interesse, addirittura nella stessa presentazione della traduzione del suo famoso Almanac (per non dire degli omessi capitoli sulla caccia)! Dover ammettere che la migliore tesi ecologista del mondo la abbia coniata un cacciatore dà fastidio a troppe persone, quindi tanti ecologisti anticaccia rimuovono i fatti per adattare la storia alle loro convinzioni, con una verità di parte che è una vera e propria mistificazione! La serie di interventi si apre con uno dei testi più sintomatici di Aldo Leopold, citato da molti ambientalisti a sostegno di una sua tesi anticaccia, ma che è solo rispettoso degli animali predatori, da non considerarsi più nocivi.

“PENSARE COME UNA MONTAGNA”

di Aldo Leopold

Un urlo profondo echeggia da roccia a roccia, rotola giù per la montagna e si perde nella lontana oscurità della notte. È un’esplosione selvaggia di sfida, dolore e disprezzo per tutte le avversità del mondo.
Tutte le cose vive, e forse molte di quelle morte, prestano ascolto a questo richiamo.
Al cervo ricorda il rischio di divenire una preda, per il pino è un annuncio delle zuffe di mezzanotte e del sangue sulla neve, per il coyote la speranza di qualcosa da racimolare, per il vaccaro la minaccia di cifre in rosso sul conto in banca, per il cacciatore una sfida tra fauci e pallottole. Ma dietro queste ovvie immediate speranze e paure si nasconde un significato più profondo, che solo la montagna conosce. Solo essa, infatti, ha vissuto abbastanza per poter ascoltare obiettivamente l’ululato di un lupo.
Anche chi non ne sa decifrare il significato nascosto, tuttavia, sa che il lupo esiste, perché la sua presenza si percepisce in tutti i territori popolati dai lupi, distinguendoli da tutti gli altri luoghi. È il brivido che percorre la schiena di chiunque senta i lupi di notte o ne segua le tracce di giorno. Anche senza vederli o udirli, la loro presenza è implicita in centinaia di piccoli eventi: il nitrito di un cavallo da soma a mezzanotte, il rotolare di sassi, il balzo di un cervo in fuga, la presenza di orme all’ombra degli abeti. Solo qualcuno irrimediabilmente inesperto può non accorgersi della presenza o dell’assenza dei lupi o del fatto che le montagne abbiano di loro un’opinione segreta.
Le mie convinzioni a questo proposito risalgono al giorno in cui vidi un lupo morire. Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi si snodava un torrente turbolento. Vedemmo quella che pensavamo fosse una cerva che stava guadando il torrente, immersa fino al torace nell’acqua bianca di spuma. Quando si arrampicò sulla sponda della nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina di essi, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò fuori dal folto dei salici, radunandosi per darle il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il masso dove stavamo noi.
A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco con più eccitazione che precisione: sparare mirando verso qualcosa molto più in basso crea sempre un po’ di confusione. Quando i nostri fucili furono scarichi, il lupo adulto era a terra e un piccolo strascicava una zampa in un impraticabile ghiaione.
Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai più dimenticato, che in quegli occhi c’era qualcosa di nuovo per me, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo ero giovane e mi prudeva il dito sul grilletto: pensavo che la presenza di meno lupi significasse la presenza di più cervi, e quindi che l’assenza di lupi equivalesse ad un paradiso per i cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista.
Da allora ho vissuto assistendo all’eliminazione dei lupi da parte di uno Stato dopo l’altro. Ho osservato l’aspetto di molte montagne da poco rimaste senza lupi ed ho visto i loro pendii rivolti a sud segnati da un intrico di nuovi sentieri tracciati dai cervi. Ho visto ogni cespuglio e germoglio commestibile venir brucati fino alla loro consunzione e alla morte. Ho visto che ogni albero commestibile privato di foglie fino all’altezza del pomo di una sella. A guardare queste montagne sembra che qualcuno abbia regalato a Dio un nuovo paio di cesoie, obbligandolo a passare tutto il suo tempo potando. Così le ossa dei tanto desiderati branchi di cervi, morti di fame perché erano troppi, si sbiancano assieme ai rami secchi della salvia o si sgretolano sotto i ginepri.
Ho l’impressione che come un branco di cervi vive nella paura mortale dei lupi, così la montagna viva nel terrore mortale dei suoi cervi. E forse per più valide ragioni: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, i danni a un rilievo eroso da troppi cervi forse non saranno riparati nemmeno in altrettanti decenni.
Lo stesso accade per le mucche: il vaccaro che libera dai lupi il suo territorio non si rende conto di sopprimere il lavoro del lupo, che consiste nel riportare la mandria alle dimensioni adeguate rispetto all’estensione del territorio. Non ha imparato a pensare come una montagna. Per questo motivo ci sono zone divenute così sterili da essere ridotte a deserti e fiumi che erodono tutto, trascinando il futuro verso il mare.
Tutti noi ci sforziamo di ottenere sicurezza, prosperità, comodità, longevità e imperturbabilità. I cervi si sforzano con le loro agili zampe, i vaccari con trappole e veleno, i politici con la penna, la maggior parte di noi con macchine, voti e dollari, ma tutti mirano alla stessa cosa: vivere in pace. Raggiungere in certa misura questo scopo è già sufficiente e forse è una condizione per poter pensare in maniera oggettiva, ma una sicurezza eccessiva sembra che, a lungo andare, produca solo pericolo.
Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: “la salvezza del mondo sta nella natura selvaggia” .
Forse questo è il significato nascosto racchiuso nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono.

WILDERNESS: THOREAU, LEOPOLD E LA CACCIA

di PAOLO SCROCCARO
Professore a riposo di Storia e Filosofia, Filosofo dell’Associazione Eco-Filosofica veneta e dell’Associazione Filosofica Trevigiana

“Dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo”
Henry D. Thoreau (in Camminare)
“Non si può dire che la caccia produca grandezza d’animo e sapienza”
Platone (in Epinomide)

Dove sta andando l’Associazione Italiana per la Wilderness (AIW)?
Mercoledì 13 ottobre 2010, nel corso di un vivace dibattito televisivo sulla caccia, a tratti scivolato nella solita telerissa, è intervenuto anche il coordinatore veneto dell’AIW, il quale, sorprendentemente, non si è schierato con la LAC (Lega anticaccia) ed il WWF, rappresentati nella trasmissione, contro la caccia, bensì ha cercato di giustificarla. In sostanza, il rappresentante dell’AIW ha polemizzato non con i cacciatori, ma con i critici della caccia, sostenendo che, nell’ottica della Wilderness, che si ispira a H. D. Thoreau (1817-1862) e Aldo Leopold (1887-1948), la caccia è ben compatibile con la conservazione della natura selvaggia: se è vero che l’uomo appartiene alla natura e in essa ha un ruolo da svolgere, lo stesso dicasi per quanto riguarda l’uomo-cacciatore ed il suo rapporto con la natura selvaggia. In particolare, l’esponente dell’AIW ha insistito sul fatto che Aldo Leopold, padre della filosofia wilderness, era anche un convinto cacciatore. Concetti e riferimenti analoghi sono riportati nel sito di Wilderness-Italia, in cui Leopold in particolare è presentato come “il massimo ambientalista di livello mondiale”, pur essendo “un convinto ed appassionato cacciatore”. Per nobilitare i cacciatori, anche oggi si cerca di trasmutarli in ambientalisti: è una nota tesi delle associazioni dei cacciatori; desta però stupore che a sostenerla ci sia anche l’AIW. Molti articoli pro-caccia di questo tenore sono ospitati volentieri nei siti dei cacciatori, e questo è perfettamente comprensibile….noi però di cacciatori-ecologisti ne abbiamo visti pochini, anzi neanche uno, pur frequentando aree montane in cui la caccia è ancora molto praticata, più che in pianura. Sulla base della nostra esperienza, dobbiamo dire che non abbiamo affatto notato l’amore o almeno il rispetto per la natura, ma più che altro la brama di selvaggina con il minimo sforzo. Non faticose e avventurose battute di caccia, a piedi, nella natura selvaggia, ma comode postazioni cui si giunge abbastanza comodamente tramite fuoristrada, portandosi dietro potenti fucili tecnologici di precisione che rendono fin troppo facile colpire bersagli indifesi come caprioli, cervi, camosci…. Dov’è la “spiritualità della caccia”, citata dall’AIW, in un contesto di sproporzione abissale tra la potenza tecnologica a disposizione del cacciatore e l’impotenza delle vittime? Dov’è l’aspetto sportivo e avventuroso, in una pratica violenta che si affida in modo preponderante alla tecnologia? Cosa c’entra tutto questo con lo spirito della Wilderness così come vissuto da Thoreau? Cosa c’entra la piccineria prepotente del cacciatore odierno con l’etica della Terra propugnata da Aldo Leopold?
In Veneto è anche peggio di così, se possibile, dato che la lobby dei cacciatori, con la caccia in deroga (in deroga rispetto alla legislazione italiana ed europea), pretende di sparare anche a piccoli volatili che altrove sono invece protetti! E tutto questo non certo per esigenze di sopravvivenza, ma solo per discutibile divertimento, per vincere la noia e soddisfare l’arroganza capricciosa di gente che pretende di sparare a ciò che si muove, grande o piccolo esso sia… Di fronte a queste meschinità, Thoreau e Leopold si staranno rivoltando nella tomba.
Thoreau infatti, come è noto, propugnava il vegetarianismo in modo esplicito. Infatti egli scriveva: “Non è un rimprovero il fatto che l’uomo sia un animale carnivoro? E’ vero, egli può vivere, e in effetti vive, per lo più depredando gli altri animali; ma questo è un miserabile modo di vita – come può ben convincersi chi vada a mettere trappole ai conigli o a sgozzare gli agnelli – e sarà considerato benefattore della sua razza colui che insegnerà all’uomo di limitarsi a un cibo più innocente e più sacro. Qualunque possa essere la mia consuetudine, non ho dubbio che appartenga al destino della razza umana, nel suo graduale miglioramento, smettere di mangiare animali…”.
Non si potrebbe essere più chiari di così: l’ispiratore della Wilderness, che considera “miserabile” la violenza umana contro gli altri animali ed il mangiar carne, non offre alcun appiglio ed alcuna giustificazione alla caccia.
Quanto a Leopold, occorre una riflessione più articolata, poiché bisogna considerare l’evoluzione culturale di Leopold, per il quale la caccia costituì effettivamente una fonte di dilemmi e conflitti interiori, come documentato nelle sue biografie. E’ ben vero che, specie nella prima parte della sua vita, era un appassionato cacciatore (e proprio per questo venne criticato da Rachel Carson)1: in quanto tale, egli cercava di valorizzare ciò che lui considerava gli aspetti positivi della caccia, cioè la possibilità di sviluppare qualità quali disciplina, determinazione, senso dell’avventura, autonomia, resistenza fisica, conoscenza ambientale…(più o meno ciò che ripetono anche oggi le associazioni dei cacciatori, quando tentano di nobilitare la caccia) 2. Le biografie aggiungono però che Leopold era crescentemente turbato dalla caccia nel suo aspetto più violento, quello dell’uccisione: Maribeth Lorbiecki racconta che egli amava profittare della pratica della caccia soprattutto per immergersi nella natura, camminare, attraversare foreste, osservare gli innumerevoli dettagli della natura, spesso riportati in schizzi e disegni… Avversava invece la modernizzazione della caccia, cioè la penetrazione al suo interno della mentalità tecnologica e consumistica, tale per cui lo spirito di avventura era sostituito dalla “voglia di confort a tutti i costi”, grazie ad un’infinità di accessori tecnologici che alteravano gravemente la concezione romantica che Leopold aveva della caccia. Una nota immagine lo ritrae armato semplicemente di arco e frecce: un’immagine-simbolo, che sintetizza il suo disgusto per la meccanizzazione della caccia. Nonostante queste riserve nei confronti della tecnica, Leopold commise degli errori non da poco (di cui lui stesso più tardi fece ammissione), specie dopo la laurea in selvicoltura (1909) e nel corso dell’attività professionale per la parte in cui si dedicò alla gestione delle foreste e della fauna.
In quella fase infatti Leopold era fortemente influenzato dalla politica ambientale di Gifford Pinchot, il quale concepiva le scienze forestali in una prospettiva marcatamente antropocentrica ed utilitaristica: si trattava di gestire le risorse forestali secondo criteri di eco-efficienza, razionalizzandone l’uso in modo da evitarne la distruzione e garantire “la massimizzazione dei beni naturali utili all’uomo” per il bene delle generazioni attuali e di quelle future. E’ un punto di vista che oggi verrebbe qualificato come “ecologia superficiale”, in una logica di “sviluppo sostenibile”. All’epoca, negli USA, il movimento di conservazione della natura operava in una simile prospettiva, seguita anche da Leopold, il quale intendeva estendere “il programma conservazionistico pinchotiano anche alla gestione della selvaggina” 3. Non a caso Leopold diventerà (1933) il primo docente universitario di “gestione della selvaggina” (presso l’Università del Wisconsin). Dietro tale progetto di razionalizzazione scientifica delle risorse vegetali ed animali, opera un punto di vista antropocentrico e alquanto arrogante: la convinzione che la tecnoscienza possa gestire il mondo naturale, gli ecosistemi, molto meglio della natura stessa. Il Leopold fervente cacciatore e conservazionista, agisce lui stesso all’interno di questa visione del mondo: evidentemente, l’AIW ha in mente solo questa fase immatura del pensiero di Leopold, e non considera gli sviluppi successivi, per i quali è diventato celebre negli ambienti ecologisti e non solo,
Nel quadro appena delineato, l’eliminazione degli animali predatori (lupi, orsi, coyote…) costituiva un aspetto importante di quella “gestione razionale delle risorse”, auspicata anche dai cacciatori, poiché si calcolava che così facendo venivano salvaguardati gli erbivori (cervi prima di tutto), ai quali avrebbero poi pensato i cacciatori. Le cose non andarono proprio così; le cronache dell’epoca (recepite dallo stesso Leopold) raccontano che la crescita demografica dei cervi risultò provvisoria: ad essa seguì poi il degrado della vegetazione (per eccesso di erbivori, in seguito all’eliminazione dei predatori carnivori), e ciò comportò l’autoriduzione spontanea del numero dei cervi. Non era meglio lasciar fare alla natura, invece di interferire con avventurosi programmi di “gestione delle risorse”?
A questo punto fa la sua comparsa la svolta ecologista radicale di Leopold, testimoniata tra l’altro in una esperienza di enorme impatto psicologico e spirituale, che lasciò un segno indelebile in Leopold e in molti dei suoi lettori: “Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quella che pensavamo fosse una cerva guadare il torrente, immersa fino al torace nell’acqua bianca di spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda, ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente…. A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione….Quando i fucili furono scarichi, il lupo adulto era a terra…. Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quegli occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo ero giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista” 4.
Possiamo dire che, a partire da questa esperienza, Leopold dà l’avvio ad un ripensamento radicale 5 e inizia a “pensare come una montagna”, abbandonando il punto di vista calcolatore ed antropocentrico della “gestione razionale delle risorse” 6. Qui la montagna simbolizza un punto di vista più ampio che trascende quello, angusto e limitato, del singolo ente, si tratti pure dell’uomo; questo pensiero cosmicamente orientato richiede una nuova etica, l’etica della Terra, che viene sintetizzata in un altro eccellente capitolo di Almanacco di un mondo semplice. Come spiega bene Leopold, l’etica della Terra supera le elaborazioni etiche moderne, poiché queste ultime sono parziali in quanto si riferiscono solo al mondo umano, mentre “l’etica della Terra allarga semplicemente i confini della comunità per includervi suolo, acque, piante e animali o, in una parola sola, la terra”.
Queste due nozioni, qui richiamate in modo cursorio, hanno il grande merito di tratteggiare in modo essenziale la spiritualità della wilderness, la cui importanza è condensabile nel detto profetico di Thoreau, che recita: “La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia”.
Commentandolo in modo profondo e suggestivo, Leopold scrive che il significato di questa formulazione è racchiuso, o simbolizzato, “nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono”.
Ebbene, come accolgono i cacciatori americani la svolta 7 di Leopold verso la spiritualità della Wilderness e l’etica della Terra?
Curt Meine, narrando la biografia di Leopold, descrive la reazione rabbiosa dei cacciatori del Wisconsin; in tale contesto venne persino diffuso un periodico in cui Leopold era fatto bersaglio di insulti malevoli per alcuni anni, fino alla sua morte, nel 1948. Negli ambienti ostili dei cacciatori, circolavano domande provocatorie del tipo: “Ormai preferisci il lupo all’uomo?”.
Evidentemente, alcuni che oggi ritengono di rappresentare la Wilderness, non ne rispettano affatto la spiritualità e invece di “pensare come una montagna”, pensano come un uomo, anzi come dei cacciatori dalla visione ristretta, la cui grande aspirazione è sparare ai fringuelli.

1 Rachel Carson, la nota autrice di Primavera silenziosa.
2 Se questo è il punto, Thoreau insegnava che per realizzare tali virtù non è necessario andare a caccia: è sufficiente il vagabondaggio quotidiano nella natura, dato che “dalla foresta e dalla natura selvaggia derivano il tonico e la scorza che fortificano l’umanità”.
4 Vedi Marco Armandi, La lezione di Aldo Leopold e le prospettive in Italia dell’etica ambientale (in Silvae, anno II, n. 6), che fornisce una buona panoramica su Leopold e sulle diverse posizioni relative all’etica ambientale.
4 Aldo Leopold, Pensare come una montagna.
5 In una conferenza del 1936, Leopold ammise che “la gestione della vita selvatica ha già riconosciuto la propria incapacità di sostituire gli equilibri naturali con altri artificiali” (citazione riportata da Gianfranco Bologna nella sua prefazione ad Aldo Leopold, Almanacco di un mondo semplice, Red, 1997). Nello stesso anno, durante un viaggio in Messico, Leopold poté constatare che vi era un maggiore equilibrio là dove non erano intervenuti i famigerati programmi di gestione scientifica delle risorse.
6 Questo nuovo angolo visuale comporta innumerevoli applicazioni: la più significativa prescrive che l’uomo non ha un diritto di proprietà sulla terra, ma eventualmente un limitato diritto d’uso che deve condividere con innumerevoli altri esseri non-umani.
7 Secondo Susan Flander, verso il 1935 il pensiero di Leopold vira di 180° rispetto a prima (Thinking like a mountain, University of Missouri Press, 1974). Il 1935 è l’anno in cui partecipa alla fondazione della Wilderness Society; inoltre acquista una fattoria nei pressi del Wisconsin River, che diventerà un osservatorio privilegiato dei cicli e dei ritmi della natura.

LA WILDERNESS PER UNA NUOVA ETICA AMBIENTALE

di Massimo Zaratin
Delegato regionale AIW per il Veneto

“La cultura rurale deve riappropriarsi degli spazi perduti.
Consiglierei di leggere I Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli.
E’ la cultura urbana che recide l’anima con i suoi riti pieni dell’ovvio”.
Antonio Pinotti

Dove sta andando la filosofia ambientale dell’ “homo urbanis”?
A seguito dell’articolo “Wilderness: Thoreau, Leopold e la caccia” a cura del prof. Paolo Scroccaro pubblicato il mese scorso in alcuni siti di filosofia in cui si critica, seppur costruttivamente, la posizione non contraria all’attività venatoria da me sostenuta durante una recente trasmissione televisiva, ritengo doverose alcune precisazioni nel tentativo di fare chiarezza sia sul concetto di filosofia Wilderness, sia sulla caccia in Italia e più in generale sulle “attività rurali” dell’uomo.
Il concetto espresso dalla Wilderness, inteso quale salvaguardia ambientale, conservazione del territorio e come filosofia di vita per l’uomo è chiaro in molte parti del mondo, specialmente in America ove questa filosofia è nata e si è sviluppata. Purtroppo tarda ad essere pienamente concepito, e pertanto accettato, laddove vi sia una predominanza culturale tendenzialmente “urbana” che continua a voler negare alcuni aspetti della natura che risultano invece senz’altro più chiari a chi vive un rapporto diretto con il territorio ed in esso vi pratica le più strette ed “intime” attività. Se è perfettamente lecito avere un’opinione negativa dell’attività venatoria, avversione che il più delle volte deriva da una scarsa se non nulla conoscenza sia tecnica che “psicologica” della materia così come ampiamente dimostrato anche da un recente sondaggio, più attenzione dobbiamo porre alle questioni puramente filosofiche espresse dai paladini della Wilderness perché altrimenti si rischia, come nel caso dell’articolo ripreso, di trarre affrettate speculazioni atte solo a rafforzare le proprie personalissime convinzioni, ma che certamente non aiutano il lettore a capire il significato più profondo dei concetti espressi da questa filosofia ambientale. Non è la prima volta, in particolare in Italia, che, quando si parla di Wilderness e quindi del suo creatore Aldo Leopold (1887-1948) e del suo ispiratore Henry David Thoreau (1817-1862), si dipinga il primo come un cacciatore più o meno pentito ed il secondo come fosse l’antesignano del vegetarianismo moderno, cultore di una natura da vivere in un puro stato contemplativo. Non è così!
E’ necessario analizzare in maniera più approfondita quali reali cambiamenti siano subentrati nella mentalità di Leopold nel corso della sua vita, tenendo però conto del contesto storico-ambientale dell’epoca e quale praticità abbia invece trovato il “Thoreau vegetariano”, nel momento in cui si è scontrato con la realtà di una natura da lui pienamente vissuta e non solo idealizzata.
Partiamo da Leopold: la visione ambientalista dell’epoca era estremamente antropocentrica. Le grandi problematiche ambientaliste si svilupparono solo successivamente, sulla spinta del devastante effetto dell’inquinamento dovuto all’industrializzazione e della deforestazione per lasciare spazio ai pascoli.
Questi problemi furono il motore propulsore che sviluppò una diversa coscienza umana cui guardare ad un nuovo rapporto uomo-natura, comprese appunto le tematiche relative alla gestione faunistica. Prima degli anni sessanta nessuno si poneva il problema se uccidere tutti i predatori significasse uno squilibrio naturale. Il programma conservazionistico di Gifford Pinchot, che influenzò Leopold anche per quanto concerne la razionalizzazione delle risorse in senso faunistico, sentiva quindi ancora della forte visione antropocentrica dell’epoca. Per Pinchot infatti si doveva guardare ”all’uso delle foreste innanzitutto per il maggior bene della generazione attuale, e poi per il maggior bene delle generazioni successive nel lungo futuro della nazione” 2.
In Leopold, la sua continua osservazione della natura, l’amore che nutriva per essa, spirituale in un certo senso ma assolutamente scientifico nel modo cui trattare i problemi conservazionistici, maturò il pensiero che lo spinse appunto a “pensare come una montagna”. Questa intuizione, e conseguentemente la maniera in cui trattare i problemi ambientali fu illuminante per l’epoca, in quanto pose le basi della moderna biologia di conservazione dando così inizio a ciò che possiamo definire l’ambientalismo scientifico.
Questa fase del suo pensiero viene veicolata dagli “anticaccia” come un messaggio dell’autore di voler bandire la caccia.
Ovviamente è un’interpretazione assolutamente errata e riduttiva della reale concezione di Leopold. Egli, ricordiamolo bene, non smise mai di andare a caccia ed i suoi studi, affiancati a questa passione, gettarono le basi dell’attuale modello di gestione faunistica, il cui relativo approccio alle varie tematiche è impostato su canoni rigorosamente scientifici.
Le biblioteche sono piene zeppe di trattati, libri, manuali di gestione faunistica scritti da scienziati, esperti, soprattutto cacciatori ed amanti della natura come Leopold. La letteratura sulla gestione faunistica si perfeziona anno dopo anno sulla base dei dati acquisiti, attraverso puntuali e rigorosi censimenti della fauna selvatica, pianificandone il prelievo e soprattutto imparando dagli errori del passato 3.
Questo modello di gestione faunistica risponde perfettamente al Leopold del secondo periodo della sua vita, in quanto segue appieno il condensato della sua miglior filosofia: “La conservazione è uno stato di armonia fra gli uomini e le terre”; concetto, questo, che nella sua essenza non tende ad escludere l’uomo dalla terra, bensì a renderlo parte integrante ed armonica del tutto.
Ignorare questi aspetti, l’approccio rigorosamente scientifico cui è sottoposta la caccia moderna, trarre banali quanto ipersemplicistiche conclusioni sul “cacciatore sparatutto”, sull’animale indifeso, sui fantomatici massacri di biodiversità causati dalla caccia, oltre a dimostrare una completa disinformazione sulla materia ed un approccio assolutamente ideologico alla questione, non risponde a quell’effettivo stato di “armonia fra gli uomini e la natura” cui tendeva la filosofia di Leopold; ed è proprio sulla differente visione del significato che diamo al termine “armonia” che sembrano scontrarsi sempre più nel mondo, ed in particolare in Italia, due diverse culture che spesse volte non riescono a dialogare tra loro. Quella a cui tendeva Leopold, e lo stesso Thoreau, sembra infatti completamente diversa dall’accezione quasi idilliaca e solamente teorizzata formulata da qualche improvvisato “neoruralista” del momento, la cui estrazione sociale è quella delle città e pertanto priva di qualsiasi contatto con la terra, se non quello puramente contemplativo. Un aspetto, questo, riscontrato anche dallo stesso Leopold, il quale pensava che il problema dell’ “educazione a conservare” fosse proprio quello di riuscire ad inculcare una tensione all’armonia con la terra in persone che hanno dimenticato che esiste qualcosa che si chiama terra e per le quali istruzione e cultura sono diventati sinonimo di abbandono della stessa.
Un uomo così avulso dalla natura, quello moderno e dipendente dalla tecnologia, che difficilmente potrà mai comprendere appieno la filosofia Wilderness proprio perché mancante dell’esperienza diretta con la natura, dentro ad essa, nei suoi cicli e nei suoi ritmi come quella vissuta dal cacciatore conservazionista e dal filosofo solitario sulle sponde del lago Walden. Quanti di noi, o meglio quali figure o categorie, saprebbero oggi apprezzare fino in fondo una delle citazioni di Leopold che trovo tra le più belle e significanti?: “la possibilità di vedere delle oche è più importante della televisione e l’eventualità di trovare un anemone costituisce un diritto inalienabile quanto la libertà di parola”.
Per entrare nei concetti della filosofia Wilderness dobbiamo renderci umili e semplici, abbandonare gli estremismi della cultura animalista, il biocentrismo individualista, l’utilitarismo di Peter Singer ed il giusnaturalismo di Tom Regan, ed approdare all’ “etica delle virtù”; quella ad esempio descritta dal filosofo Venturi Ferriolo, che vede il “buon giardiniere” ed il “buon agricoltore” quali figure paradigmatiche capaci di insegnarci un nuovo ideale per una vita semplice e buona. Perché allora, rispondendo ai canoni di un ambientalismo ragionevole e responsabile, non includere accanto alla figura del “buon giardiniere” e del “buon agricoltore” anche quella del “buon pescatore”, del “buon cacciatore” o del “buon allevatore”, se le rispettive attività vengono svolte secondo rigide regole scientifiche, in piena concezione Leopoldiana?
Le troppe questioni teoriche, frutto di una civiltà fortemente urbanizzata e lontanissima dai “problemi pratici” della natura stanno inesorabilmente inquinando quel rapporto diretto con la natura, che un tempo accettava serenamente l’uomo all’interno del suo cerchio; ora, questo tipo di uomo, sembra non volerlo più. La “questione animale” e più in generale l’intera filosofia animalista è per esempio il classico caso di estremo “distacco dalla natura”: essa isola completamente l’uomo dalla sua realtà e, arrivando il più delle volte a risultati paradossali, “dissolve l’etica in una rete a maglie fittissime di relazioni morali dove è difficile stabilire chi è soggetto morale e chi no, in che punto finisce la “comunità biotica” e in che punto comincia la “comunità morale”.
I modelli di riferimento della nostra civiltà, orientati al benessere tecnologico e all’apparire piuttosto che all’essere, hanno prodotto risultati devastanti per l’ambiente. Si è perso il modo di “Vivere la natura” così come inteso da Leopold e Thoreau, anche e soprattutto perché questi modelli hanno sfornato, e continuano a sfornare, uomini che neanche lontanamente possono immaginare cosa significhi. All’uomo d’oggi, più che un modello che ripensi al rapporto con la natura, serve un modello per ritrovare se stesso. Personalmente paragono moltissime delle disquisizioni filosofiche attuali, sviluppate troppo spesso da uomini che non hanno mai avuto contatti diretti con la natura, come la morte della vera filosofia, in questo caso ambientale, ipotizzata da Thoreau, il quale affermava: “al giorno d’oggi vi sono professori di filosofia ma non filosofi. E tuttavia insegnare è ammirevole quanto, un tempo, fu ammirevole vivere. Essere filosofi non significa avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Risolvere i problemi della vita non solo teoricamente ma praticamente”. L’uomo, per Thoreau, è dipendente dal “mostro sociale” avendo egli perso la capacità di costruirsi un rifugio da solo e di procacciarsi il cibo indipendentemente “uscendo” dalla catena industriale. Questa praticità del vivere a contatto con la natura, in un luogo freddo come quello di Walden, creò infatti non pochi problemi conflittuali al filosofo ambientalista che ideologizzava una dieta vegetariana, mai perseguita però fino in fondo durante la sua permanenza in quei luoghi solitari. Una “piccola” contraddizione, questa del filosofo, anche teorica in quanto Thoreau ereditò la concezione di natura trascendentale da Emerson il quale nel saggio “Nature”, in uno degli otto punti essenziali della sua filosofia, affermava che “tutto in natura ha un utilizzo” esattamente come pensa il contadino che vive immerso nella natura e ne conosce i segreti; figura, questa, che Thoreau trovava interessante in proporzione alla sua povertà, nonché valido sostituto del saggio e del filosofo.
Nella concezione di “uomo inserito nella natura”, nel rispetto dei suoi cicli e dei suoi ritmi così come predicato da Leopold e filosofeggiato da Thoreau, la figura dell’uomo cacciatore, del “buon cacciatore” intendo, entra quale comparsa fondamentale ed inalienabile nella scena la cui protagonista è la natura. Si potrà disquisire sui metodi e sui tempi della caccia (e solo dal punto di vista scientifico), ma non sulla figura dell’uomo cacciatore quale parte integrante ed armonica del territorio che sta vivendo. Accanto alle figure paradigmatiche del “buon giardiniere” ed il “buon agricoltore” decantate dal filosofo Venturi Ferraiolo, si inserisce perfettamente anche la figura del “buon cacciatore” così come, per sentimenti, emozioni e rapporti profondi stabiliti con la natura, le figure del “buon pescatore”, del “buon allevatore”, del “buon raccoglitore” e del “buon escursionista”. Chi non dovrebbe starci in quella scena, perché stride notevolmente con i concetti di “natura selvaggia e uomo in essa inserito”, è proprio la figura del filosofo appartenente alle “categorie superiori” criticata da Thoreau e da lui sostituita appunto con quella del contadino povero, l’animalista-chic dell’ambientalismo moderno e salottiero, l’asfalto ed il cemento dell’ “uomo urbano”, il turismo di massa, le visite guidate nei parchi con tanto di biglietteria all’ingresso. Ovviamente, anche la caccia, come la pesca, l’agricoltura e le altre attività svolte in natura, non sono affatto indenni dagli effetti di quel “mostro sociale” cui Thoreau pensava dipendesse l’uomo moderno. Le attività dell’uomo in natura diventano soprattutto un problema nel momento in cui si trasformino in professioni e quindi fonte di guadagni che alimentano quel “mostro”. Io, con l’aggettivo “buono” intendo proprio colui che vivendo nella natura abbia sviluppato sentimenti e rapporti tali da farlo “pensare come una montagna”. Chi quella montagna la vive direttamente è avvantaggiato a sviluppare questo sentimento, sia da un punto di vista spirituale, cosa questa che ritengo fondamentale per meritarsi l’appellativo di “buono”, sia da un punto di vista pratico, in quanto la conosce profondamente nel suo insieme.
Colui che nel dibattito in questione disquisisce ad esempio se sia giusto o meno eliminare dalle nostre acque la presenza dei gamberi della Louisiana che fanno razzia delle uova di tutti gli altri pesci, sta forse pensando come il fiume? Chi, se non il pescatore, può pensare come il fiume? Chi si oppone agli “abbattimenti scientifici” dei troppi ungulati o si interroga se sia giusto o meno che l’uomo li “uccida”, sta forse pensando come una montagna? Chi, se non il cacciatore, l’agricoltore, chi abita e vive quel territorio può pensare come una montagna? Chi meglio del “buon giardiniere” può curare il “bello” del suo luogo?
Le risposte a queste domande sono chiare nella filosofia Wilderness, ma diventano sempre più incomprensibili ad un uomo che, passo dopo passo, si allontana sempre più dalla natura; questo è il problema cui dovrebbe tendere l’attuale dibattito filosofico, ovverosia come ristabilire l’interesse per la terra, in uomini che vivono attorniati dal cemento e dall’asfalto affinchè ritrovino non un nuovo modello cui “pensare” il rapporto con la natura ma per ritrovare se stessi all’interno di essa: il “fare” al posto del “pensare”. Ardua sarà quest’impresa fintantoché non cambieranno i modelli di riferimento del “mostro sociale” ed il tentativo non può che avvenire partendo da una filosofia improntata all’ “etica delle virtù” e che si interroghi nuovamente sul mito del “buon selvaggio” o sul “ritorno allo stato di natura” di J.J. Rousseau piuttosto che inserire quale perno centrale del dibattito teorie di emozione e non di ragione come quella sui “diritti degli animali”; continuando di questo passo non vorrei trovarmi un giorno a difendere i concetti espressi dal cacciatore mai pentito Aldo Leopold da chi, stravolgendone il pensiero, lo vede come un fervente animalista in una natura “monumentale” da non toccare e da vivere solamente in senso turistico alla domenica.
Questo articolo è anche visionabile, con note, nel sito www.Riflessioni.it.

WILDERNESS: LEOPOLD, THOREAU E LA CACCIA

Intervento in risposta alla tesi del filosofo Paolo Scroccaro il quale, come già tanti altri ambientalisti italiani tendenzialmente anticaccia, ha interpretato a suo modo il pensiero di Aldo Leopold.

di FRANCO ZUNINO

«Io non ricordo la fucilata; ricordo solo l’indescrivibile felicità quando la mia prima anatra cadde sulla lastra ghiacciata con un tonfo e là giacque, a pancia all’aria, con le rosse gambe scalcianti»

Aldo Leopold
(tratto dalla parte non tradotta nell’edizione italiana del A Sand County Almanac)

Chi mistifica chi?
Gli effetti di cattive traduzioni e di ancora peggiori saggi ed articoli omissivi e mistificatori su Aldo Leopold e la sua Etica della terra quando il suo personaggio e l’Etica furono portati alla conoscenza degli ambientalisti italiani, ma anche su Henry David Thoreau, si fanno sempre più sentire (il primo apparve sulla rivista Airone diversi anni fa: rivista che dovette poi pubblicare, dandogli non poco risalto, una rettifica a seguito di una mia precisazione). L’ultima è del filosofo Paolo Scroccaro dell’Associazione Eco-Filosofica veneta. Nel suo intervento, qui pubblicato in apertura di questo dibattito, cerca di far passare l’AIW come mistificatrice dei fatti che riguardano Aldo Leopold, quando è il filosofo a mistificare fatti e personaggi per adattarli alla sua visione, chiaramente di ecologista anticaccia. Ma la verità vera è una sola, e l’AIW non ha paura di essere smentita, perché se non in Italia almeno negli USA esistono montagne di libri che la verità su Aldo Leopold ed Henry Thoreau la documentano inoppugnabilmente: libri, articoli e saggi scritti dagli stessi personaggi e/o da loro biografi. Scritti basati su documenti e non su chiacchiere o cattive traduzioni o, peggio, saggi manipolati che non meritano neppure citazione bibliografiche se non fosse che sono scritti in italiano – e per chi non conosce la lingua inglese è giocoforza costretto a leggere almeno questi. Libertà e democrazia sono veramente in gioco, perché l’egemonia culturale, come scrisse Gramsci, “impone ad altri gruppi i propri punti di vista attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise fino alla loro interazione”.
Aldo Leopold oggi è soggetto ad una mistificazione che nel nostro Paese fa il parallelo solo con quello che si legge sul famoso Renzo Videsott, storico Direttore del Parco Gran Paradiso e gran cacciatore. In alcuni libri e testi questi è fatto passare per un anticaccia, quando addirittura i suoi ultimi scritti da lui inviati per l’edizione a riviste di caccia ancora poco prima di morire, narrano solo di storie di caccia allo Stambecco! Del leopoldiano Sand County Almanac in Italia hanno addirittura evitato di tradurre i capitoli principali in cui Aldo Leopold parla di caccia!
Forse è anche per questo che l’autore dell’articolo che qui si vuole contestare si chiede che “c’entri con la caccia lo spirito della Wilderness”, facendo capire con questa semplice domanda di non conoscere nulla dello spirito della Wilderness, spirito che proprio nella caccia ha le sue radici non solo filosofiche (perché la pratica della caccia è strettamente legata allo spirito della natura selvaggia delle origini pionieristiche americane – si pensi a Daniel Boone, a Jedediah Smith o a Jim Bridger, famosi “mountain men” ai quali ultimi sono anche state dedicate due bellissime e vaste Aree Wilderness, ovviamente aperte alla caccia) ma anche nell’applicazione del suo concetto di conservazione. La prima Area Wilderness del mondo, quella che in America è considerata un pilastro, un emblema intoccabile, la Gila Wilderness Area, fu designata dal Servizio Forestale su istanza di Aldo Leopold con la finalità prima di preservare un vasto territorio da far rimanere selvaggio ma anche e proprio per finalità venatorie: “Una distesa ininterrotta di ambiente preservato nel suo stato naturale, aperta ad una caccia e ad una pesca legittime e lasciata priva di strade, sentieri modernizzati, strutture turistiche ed altre opere dell’uomo”.
Il filosofo Scroccaro si chiede poi anche cosa c’entri la “piccineria prepotente del cacciatore con l’etica della Terra propugnata da Aldo Leopold”, dimostrando ancora una volta di non conosce nulla di Aldo Leopold. L’Etica della terra (terra in minuscolo, e nel senso di suolo e di ambiente naturale, e non nel senso di globo che gli danno in Italia gli eco-animalisti fanatici anticaccia!) di Aldo Leopold c’entra talmente tanto con la caccia, che Aldo Leopold ne scoprì le fondamenta e ne coniò i principi durante un’escursione in Messico per scopi venatori: in quell’occasione lui ed i suoi compagni cacciavano con l’arco, ma cacciavano! Aldo Leopold ha praticato diverse professioni, dal forestale al biologo, a quella universitaria, a quella di libero ecologo nella sua proprietà del Wisconsin, dove poi morì per un attacco di cuore durante un incendio che stava bruciando i suoi amati rimboschimenti (eccola l’Etica della terra, nel senso che uno dei suoi più veri interessi fu il combattere l’erosione del suolo che in quegli anni in America aveva assunto proporzioni spaventose: la terra, the land, il suolo! Una land solamente intesa come metaforica espressione del grande ciclo della vita, con la predazione e la caccia come componenti inscindibili), ma soprattutto lui fu un cacciatore, un cacciatore convinto fino alla fine dei suoi giorni e non solo “nella prima parte della sua vita” come, mistificando, ha scritto il filosofo (basti a provarlo il fatto che benché pubblicato postumo – quindi l’ultima sua opera -, nel suo Almanac non vi è una sola parola contro la pratica della caccia)! E fu un altrettanto convinto studioso della selvaggina (è suo quello che ancora oggi è considerato il massimo manuale di gestione della selvaggina da caccia negli USA: Wildlife Management, il suo libro più noto dopo il più famoso A Sand County Almanac, “L’almanacco della Contea della Sabbia” – malamente tradotto in Italia con “Almanacco delle cose semplici” -; e per Leopold fu certamente l’opera più importante: un volume di ben 500 pagine!).
Un’altra mistificazione è quella del conflitto interiore che Aldo Leopold avrebbe avuto nei confronti della caccia. Sì, un conflitto interiore Aldo Leopold lo ebbe veramente, ma non sul fatto se dovesse o meno cacciare, ma semplicemente sul fatto se considerare gli animali predatori dei nocivi o non, invece, parti integranti e indissolubili dell’ecosistema. Un conflitto che anche tanti cacciatori italiani hanno avuto e alcuni hanno ancora, portati poi, come Leopold, ad apprezzare come i naturalisti la vita ed il diritto all’esistenza di animali quali il Lupo, l’Orso, l’Aquila reale ed altri predatori. Eccola l’esperienza di “Escudilla”, la montagna (oggi Area Wilderness, anche questa aperta alla caccia!) dove visse uno degli ultimi Grizzly dell’Arizona e che, come nel caso della lupa da lui uccisa, portò Leopold a riflettere sull’importanza degli animali predatori nel grande ciclo della vita (il suo “pensare come una montagna”); una montagna che Leopold, dopo l’uccisione di quell’ultimo Grizzly, la definì essere “solo più una montagna”, per dire che aveva perso quel fascino che la presenza del Grizzly gli conferiva agli occhi ed al sentire dell’uomo. Riflessioni e pensieri che nulla hanno a che vedere con le tesi pro o contro la caccia, ma caso mai sul significato del grande ciclo della vita che la wilderness anche rappresenta e di cui l’uomo come essere “predatore” è parte integrante.
Nel suo “pensare come una montagna” Leopold non vuole quindi criticare la caccia, ma solamente lo sterminio dei predatori che a quella sua epoca negli USA, come in gran parte del mondo, era portata avanti come metodo per aumentare la presenza delle specie di selvaggina cacciabile; per eliminare un competitore, in pratica. Non era lo sparare in sé a quei lupi che egli narra in questo capitolo del suo saggio, ma solamente lo sparare ai lupi. Che è una cosa diversa! Il filosofo Paolo Scroccaro riportando solo la prima parte del testo originario, altera il senso delle riflessione di Leopold, facendo quasi credere ai lettori che il “pensare come una montagna“ volesse essere una denuncia della caccia quale attività in sé, mentre era solo la denuncia di un certo modo di intendere la gestione della fauna per finalità venatorie. Così come stessa mistificazione egli fa in una nota (citando Susan Flander nota biografa di Leopold) dove riporta che “il pensiero di Leopold virò di 180° gradi rispetto a prima”. Con ciò facendo intendere che tale “virata” fosse stata contro la caccia, mentre essa era solo rivolta ad una diversa visione del rapporto caccia-predatori.
Aldo Leopold apprezzava la caccia per la sua funzione ricreativa, e questo lo scrive anche il filosofo Paolo Scroccaro, ed amava mantenerla in uno stato di rapporto equilibrato con l’ambiente, come a quell’epoca, ed anche prima, tanti altri famosi cacciatori-ambientalisti americani propugnavano di fronte ai massacri della selvaggina perpetrati sul finire del secolo XVIII e gli inizi del XIX, ma non erano contro la caccia tout court come si vorrebbe far credere in Italia. Il suo cacciare con l’arco era solo un momento di intervallo tra le tante cacciate col fucile, perché amando la caccia ne apprezzava tutti i metodi per praticarla. Avversare la modernità della caccia non significa essere contro questa pratica; significa solo volerla riportare, o mantenere, in una dimensione meno moderna e di equo prelevamento della selvaggina: proprio quella di farne uno sport, quello sport, quel divertimento che proprio gli anticaccia del nostro Paese non accettano e che pure sta nella tanto osannata cultura pellerossa (o dei nativi americani) come esempio di rispetto della selvaggina!
Essi, gli anticaccia, considerano questa sua visione della pratica venatoria come un rinnegare la caccia, e addirittura decidono loro di considerare quella sua visione “una fase immatura del suo pensiero” a confronto con una caccia corretta ed equilibrata con le consistenze faunistiche (quella che oggi sempre più spesso si pratica anche in Italia) in seguito da lui sostenuta (ma anche da Theodore Roosevelt, il famoso Presidente ma anche famoso conservazionista americano, convinto cacciatore per tutta la vita, e pur grande accusatore dei cacciatori che seguivano questa pratica solo a fini distruttivi della selvaggina). Era un’altra epoca e, soprattutto in America, la caccia aveva bisogno di un ridimensionamento per fermare il massacro che si stava facendo di ogni specie animale, e ci vollero i cacciatori-ambientalisti come Roosevelt, Jay “Ding” Darling, Leopold ed altri per far cambiare le cose, non i naturalisti né tanto meno gli animalisti che non mossero un dito, presi com’erano a difendere… i gatti di New York!
Quella “tecnoscienza” che il filosofo critica, intesa come manipolazione della fauna da parte dell’uomo, era proprio la “wildlife management” della selvaggina che predicava Leopold, e che proprio nel saggio citato egli alimenta evidenziando un aspetto che prima veniva ignorato o ritenuto in contrasto, facendo capire che selvaggina e predatori dovevano fare parte di uno stesso ciclo!
Leopold non ha mai scritto nulla contro la caccia come attività sportiva (quindi ludica), ma solo contro la caccia di sterminio della sua epoca, e fu per questo che molti cacciatori lo criticarono. E questo è quello che succede anche oggi nel nostro Paese dove la frangia dei cacciatori onesti sono spesso criticati da quelli che pensano solo alla preda. Ed è il caso, proprio qui, di evidenziare come l’amore per la caccia di Leopold era tanto immedesimato con la sua idea della natura selvaggia e della caccia come momento di vita all’aria aperta da non condividere la caccia come viene praticata in Europa. Proprio nel suo Sand County Almanac egli ebbe modo di scrivere che «In Europa la caccia e la pesca sono in gran parte prive di ciò che le aree lasciate allo stato selvaggio possono contribuire a preservare in questo paese. I cacciatori europei non si accampano, non cucinano e non lavorano nei boschi se possono evitarlo. I lavori faticosi sono delegati ai battitori ed ai servitori, e la caccia si svolge più in un atmosfera di scampagnata che non di avventura pionieristica. La prova dell’abilità è costituita, in larga misura, solo dall’effettiva cattura di selvaggina o di pesci.»
Questo fu Leopold, fino alla fine dei suoi giorni. Un mito per i conservazionisti americani, un mito tanto forte che molti dei massimi ambientalisti americani di oggi che portano avanti la sua visione dell’Etica della terra e la battaglia per salvare la wilderness rimasta, si ispirano a lui; e molti di essi (anche i più oltranzisti di Earth First!) sono anche cacciatori; tanto cacciatori che non v’e proposta di nuova Area Wilderness in cui non sia evidenziato il suo valore anche come terreno per la pratica della caccia!
Ma forse tutti i nostri eco-filosofi politicizzati questo non lo sanno, dato che leggono solo i saggi di quelli che come loro mistificano i fatti, creandosi il mito di un’ecologia profonda, che se mai dovesse applicarsi porterebbe solo al suicidio dell’uomo come unico modo per salvare il Pianeta!
In quanto a Thoreau, il “vegetariano” Thoreau secondo il filosofo Scroccaro, il predicatore anticaccia secondo gli animalisti italiani (che però era entusiasta dei pesci che pescava nel suo Lago Walden e della selvaggina che mangiava durante le sue escursioni nei Boschi del Maine!), egli fu una persona che pur non amando uccidere animali non ha mai rinnegato il diritto a cacciare se la preda poi veniva utilizzata per cibarsene, specie durante le esperienze di vita selvaggia. Egli, è vero, ha anche scritto della sua aspirazione a che un giorno l’uomo cessasse di uccidere animali, ma la sua critica era più rivolta alla pratica del macello di animali domestici che non a quelli selvatici: Thoreau fu contraddittoriamente sia procaccia sia anticaccia in varie fasi della sua vita (o, forse, in base a quello che scriveva!). Egli ha scritto cose importantissime a favore della caccia, assai più incidenti che non le frasi contrarie a quest’attività: «malgrado l’obbiezione su ciò che riguarda l’umanità, sono costretto a dubitare che esistano sport altrettanto validi da sostituire alla caccia; e quando qualche amico mi ha chiesto ansiosamente se dovesse lasciare andare a caccia i suoi ragazzi, ho detto di sì – ricordando che la caccia è stata una delle parti migliori della mia educazione.» «… il cacciatore è il più grande amico degli animali che caccia, non esclusa la Società Umana.». Assurti che più di tanti altri scritti di critica all’uccisone di animali ci dice quale fosse il suo vero pensiero sulla pratica della caccia.
Per concludere, forse Aldo Leopold ed Henry David Thoreau si rivolteranno anche nella tomba, ma non per ciò che l’AIW scrive di loro, bensì per la manipolazione che del loro pensiero nel nostro Paese fanno gli eco-animalisti e filosofi alla Scroccaro!
Aldo Leopold è considerato, specie dal mondo ecologista anglosassone, che è poi come dire la cultura in merito dominante nel mondo intero, il massimo ecologista. Evidentemente ai cultori dell’Etica della terra e dell’ecologia profonda (che non era nel pensiero di Aldo Leopold) dà estremamente fastidio il fatto che Aldo Leopold fosse stato un convinto cacciatore, e che una tale profonda idea di massimo rispetto per il mondo naturale fosse scaturita dal pensiero di un cacciatore è per loro una cosa inaccettabile. E allora ecco che bisogna rimuovere questo fatto, far sì che le nuove generazioni credano ad un Aldo Leopold che alla scoperta dell’Etica della terra abbia fatto seguire un rinnegamento della sua pratica di cacciatore, cosa che egli mai fece e mai pensò minimamente di fare (educò anche i figli a questa pratica)!
Ed ecco perché oggi Aldo Leopold vive e lotta con noi!

10 luglio 2011

ALDO LEOPOLD E LA CACCIA: Una polemica infinita!

Il numero 2/2011 di Wilderness/Documenti è stato dedicato ad un dibattito su Aldo Leopold che lo scorso anno ha coinvolto il filosofo Paolo Scroccaro, dell’Associazione Eco-Filosofica di Treviso (nonché detentore di un Certificato Internazionale di Ecologia rilasciato dalle Università di Parigi, Bruxelles e Padova) e Massimo Zaratin, Delegato regionale AIW per il Veneto, scaturito dall’intervento di quest’ultimo nel programma televisivo di una TV locale, ed i cui testi sono poi stati diffusi sul web attraverso vari siti, dove in molti sono intervenuti pro o contro le due tesi. Ora esse sono qui riprese, facendole seguire anche da un intervento di […]