I comunicati AIW relativi all’attuale condizione in cui versa la popolazione residua di Orso marsicano da tempo avevano stimolato in me alcune riflessioni, riflessioni che desidero partecipare agli associati e/o a coloro che a qualsiasi titolo sono interessati alla problematica Orso marsicano.
Premetto che chi scrive, molisano trapiantato nell’alta valle del Fiume Volturno, medico veterinario e cacciatore di Coturnici, è stato in passato acerrimo nemico dell’orso, in quanto identificato con il Parco d’Abruzzo e con le mire espansionistiche che hanno nel tempo ridotto gli spazi venabili di alta quota, sino al loro azzeramento.
La mia avversione al Parco è stata tale da maturare la convinzione che l’estinzione dell’orso potesse in qualche modo significare una perdita di potere (e di risorse) per coloro che hanno gestito in modo totalitario ed unilaterale risorse e territorio.
Un quarto di secolo di professione, esercitata in una regione praticamente sovrapponibile alla home range dell’orso, durante la quale mi sono occupato e mi occupo tutt’ora prevalentemente di epidemiologia della fauna selvatica, unitamente all’avvicendarsi di dirigenze e professionalità più “umane” in ambito Parco, hanno gradualmente modificato il mio rapporto con l’orso.
Allo stato attuale, l’esperienza maturata sul campo con la capillare conoscenza del territorio, dei singoli orsi, delle problematiche connesse alla loro conservazione e alle conflittualità con il mondo venatorio e zootecnico, mi hanno valso la nomina al tavolo tecnico, istituito presso il Ministero della Salute, per l’attuazione del Progetto “Live Arctos” finanziato in parte dalla Comunità Europea.
Immagino che la cosa possa far storcere il naso a qualcuno, ma il fatto che la commissione di cui faccio parte si occupi esclusivamente di problematiche di ordine sanitario rappresenta un notevole passo avanti rispetto all’individuazione delle cause della mancata crescita (o meglio, costante diminuzione) della popolazione di orso marsicano è in qualche modo in linea con le convinzioni di Franco Zunino relative alla frequente mancata individuazione della causa di morte.
Come egli ha spesso affermato, frequentemente l’avanzato stato di putrefazione dei resti di orsi rinvenuti, non ha permesso di risalire alla causa di morte. Ma se si fosse trattato di avvelenamento il tossico sarebbe comunque stato riscontrabile nei tessuti in decomposizione, o se si fosse trattato di morte traumatica (investimento o bracconaggio) comunque la base scheletrica ne avrebbe riportato traccia. Va da sè che un alto numero di morti possa verosimilmente riconoscere cause sanitarie.
La commissione di cui faccio parte ha individuato 17 agenti infettanti, di cui almeno in questa sede ometto i particolari, patogeni per l’orso, di cui dieci di essi già riscontrati in animali selvatici o domestici che vivono in simpatria con l’orso stesso.
L’azione prevista dal Live Arctos, per quanto di mia competenza, consiste nel monitoraggio attivo e passivo di tali popolazioni, con particolare riferimento a quelle specie (cervo, cinghiale, capriolo, cani randagi) di cui, ad onta di alta densità territoriale, si dispongono di dati statisticamente poco significativi.
Personalmente ipotizzo che possano circolare tra la popolazione di orso agenti infettanti che, se pur non letali, possano influire negativamente sulle condizioni generali o deprimere le funzioni riproduttive delle poche femmine in età fertile, o determinare elevata mortalità neonatale. Tale ipotesi troverebbe conforto sulla constatazione che l’attuale struttura di popolazione (40 individui identificati con monitoraggio genetico) sia scarsamente rappresentata da individui sub-adulti.
Ho frequente riscontro di una femmina (“Ura”), della quale ho assistito all’accoppiamento, che, nonostante fosse da alcuni anni in età fertile, non mi è mai capitato di vedere in compagnia di cuccioli.
Come è ben noto a tanti, oltretutto, la bassissima variabilità genetica non gioca certamente a favore del potenziale riproduttivo della popolazione.
Colgo l’occasione, e mi scuso per il dilungarmi, per porre l’attenzione su alcune criticità relative alle conflittualità con il mondo zootecnico: in particolare, in virtù dell’attività professionale che mi porta a stabilire rapporti di quotidianità con il mondo agro-zootecnico, ho potuto constatare alcune fasce di intolleranza nei confronti del lupo, indipendentemente dai danni prodotti e dai sistemi di risarcimento.
Già, il principale imputato delle aggressioni al bestiame è certamente il lupo; i danni causati dall’orso sono infatti statisticamente poco rilevanti.
Senza voler puntare il dito contro alcuno, e nella convinzione che la stragrande maggioranza degli allevatori operi non solo nel rispetto delle regole, ma dia un contributo sostanziale, talora non riconosciuto, alla sopravvivenza dell’orso, va sottolineato che qualche allevatore che utilizza mano d’opera extracomunitaria di origine slava va considerato come sorvegliato speciale, per via del possibile approvvigionamento di stricnina in terra d’origine.
La morte dei tre orsi nei pressi di Pescasseroli di alcuni anni fa avrebbe dovuto insegnarci qualcosa a riguardo.
E’ chiaro che non è l’orso il bersaglio degli avvelenatori, così come lo non lo è per i cercatori di tartufi, tanto frequenti nel nostro territorio, che, allo scopo di sbaragliare il campo dai concorrenti, finiscono per compiere atti di assoluta gravità (mi riferisco alla diffusione di bocconi avvelenati).
Altro punto di debolezza fondamentale, come Zunino non ha mai perso occasione di rimarcare, è certamente il disturbo antropico; a tal proposito ritengo che i 130 volontari impiegati per tre giorni per le osservazioni di campo siano poca cosa se rapportati alle centinaia di ragazzini in calzoncini azzurri e cravatta a strisce che durante i mesi di luglio agosto, cantano, ballano, suonano, accendono fuochi, schiamazzano e si insinuano nei recessi più impensabili, quando non si perdono per la montagna facendo intervenire forestali, soccorso alpino, vigili del fuoco e volontari, a portare ulteriore azione di disturbo agli orsi in attività iperfagica.
E poi le orde di escursionisti, talvolta sprovveduti ed impreparati, che spinti dal desiderio irrefrenabile di vedere l’orso a tutti i costi si avviano alla meglio o ricorrono a guide poco oneste che per profitto non esitano a forzare i divieti, ivi compreso il pernotto in quota nelle aree interdette.
Naturalmente tutto ciò che vado affermando appartiene ad esperienze personali, maturate come già detto per motivi professionali, nel territorio del PNALM o della ZPE (Zona di Protezione Esterna).
E’l’ora che qualche Presidente, Direttore, Assessore o Dirigente si assuma la responsabilità di decisioni tanto impopolari quanto inevitabili nell’ottica di conservazione del plantigrado, improntate al totale divieto di frequentazione a chicchessia delle core area dell’orso, con particolare riferimento ai ramneti durante i mesi di agosto-settembre.
Dev’essere un preciso intento per tutti coloro che hanno a cuore la sopravvivenza dell’orso esercitare pressioni verso coloro che gestiscono la governance dell’area protetta affinché non vengano anteposte le ragioni di management a quelle squisitamente conservazionistiche.
In ultimo, e qui mi fermo, mi preme fare alcune considerazioni proprio sul ramno di cui l’orso sembra proprio non poter fare a meno. Che le piccole bacche nere abbiano proprietà energetiche è ampiamente acclarato, ma il fatto che anche nelle annate di forte scarsità di produzione (2011) gli orsi passino intere nottate alla ricerca delle poche presenti lascerebbe intendere che esse contengano qualcosa in più di semplici sostanze da trasformare in tessuti di deposito: è ipotizzabile la presenza di elementi utili ai fini riproduttivi o finalizzati al superamento del periodo letargico? Mi sono più volte posto questo interrogativo osservando gli orsi che nei ramneti strappano letteralmente tutta la crescita dell’anno per recuperare le poche bacche presenti, consumando probabilmente molta più energia di quanto non ne introducano, e devastando gli arbusti ne riducono progressivamente la produttività. Io sono totalmente digiuno di botanica, ma mi piacerebbe sapere se sono state effettuate indagini circa la composizione chimica delle bacche.
In un immediato futuro mi piacerebbe affrontare l’aspetto venatorio in un’ottica conservazionistica, principalmente dell’orso marsicano, anche alla luce delle esperienze personali di cacciatore di montagna (40 licenze) e di consulente dell’organo di gestione dell’Area Contigua al PNALM, versante Molisano.

di Antonio Liberatore

NOTE:

* Dottore in Veterinaria, membro del tavolo tecnico istituito presso il Ministero della Salute per l’attuazione del Progetto “Live Arctos”.

Nota della redazione. Si ritiene di inserire questa nota per dare una dovuta spiegazione ad alcuni termini che possono risultare oscuri, quali “ramno” e “ramneti”; ma anche per un commento alla tesi in merito esposta dall’autore.

Il Ramno (in questo caso Rhamnus alpina) è una pianta arbustiva che vegeta solo in poche zone delle Alpi, dell’Appennino centro-settentrionale e della Sardegna che nel Parco Nazionale d’Abruzzo forma dei veri e propri popolamenti (“ramneti”) distribuiti nei circhi glaciali alle quote più elevate di alcune valli. Questa pianta produce grandi quantità di piccole bacche, nere quando raggiungono la piena maturazione in agosto/settembre. Queste bacche, dolciastre e con effetti estremamente diarroici, sono molto appetite dagli orsi, che nella stagione della loro maturazione le vanno a ricercare in modo particolare, concentrandosi quindi nelle zone dove la pianta è più abbondante. Zone quindi estremamente delicate e che dovrebbero essere severamente chiuse al turismo di ogni tipo (mentre oggi vi si può accedere semplicemente pagando un ticket a delle cooperative di accompagnatori!). La tesi dell’autore in merito ai danni che gli orsi arrecano a questi cespugli è molto discutibile, in quanto il danneggiamento prodotto dagli orsi equivale ad una forma di “potatura” naturale che caso mai favorisce poi la crescita di nuovi getti nella primavera seguente; e prova ne è che i ramneti si sono sempre più estesi ed i cespugli che li formano sempre più ingranditisi e cresciuti di dimensione. E ciò nonostante che fino agli anni 60 del secolo scorso questa pianta fosse regolarmente saccheggiate più che dagli orsi dall’uomo, che raccoglieva bacche e corteccia per commerci farmaceutici. La scarsa produzione di bacche che si verifica in alcuni anni è semplicemente dovuta al naturale andamento ciclico della fruttificazione di tutte le piante selvatiche, che ad anni di elevata produzione ne alternano altri di scarsa per mere ragioni fisiologiche e ambientali e di difesa della pianta (che in quegli anni, per altro, non subisce danneggiamenti alcuni dagli orsi).

1 giugno 2012

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